Un giorno il Signor Confine si svegliò depresso: sentiva come se una montagna gli fosse crollata addosso e si rese conto di non essere contento di se stesso.
Si disse: sono stanco di tenere dentro qualcuno e fuori qualcun altro.
Di dover essere lo spartiacque tra questo e quello, tra giusto e sbagliato, tra un paese e l’altro…
Ci pensò a lungo e poi si rivolse al saggio della montagna che viveva sulla vetta più alta del paese e non era abituato a trattare con i confini.
Il Signor Confine gli raccontò il suo problema e il saggio si commosse a sentire le sue parole a tal punto che pianse rumorosamente.
Il Signor Confine fu stupito da tanto trasporto e il saggio quando se ne accorse si scusò e disse:
“Sai è un mio limite, non riesco a trattenere le lacrime.
“A questo punto il Signor Confine era ancor più sorpreso, la parola limite non l’aveva davvero mai sentita ma gli sembrava interessante, suonava bene, era morbida …”
Apparentemente può sembrare difficile tessere la parola “confine” dentro quell’intricato gomitolo che è andato via via formandosi durante il percorso di Fili di Trama, un progetto di inclusione sociale rivolto a quindici giovani cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training) di età compresa tra i 18 e i 29 anni, progetto realizzato dal CESC Project e giunto alla sua seconda annualità. Ma se intendiamo il confine come un limite, che è anche uno dei sinonimi più immediati e frequentemente usati, allora ci risulta più semplice trasformarlo in un altro filo che va a intersecarsi in questa variegata matassa, finendo per costituirne un aspetto caratterizzante e inseparabile.
Ci viene in soccorso l’antropologia con il concetto di liminalità (che deriva da limen, limite appunto in latino), la qualità dell’ambiguità o del disorientamento che si verifica nella fase intermedia di un rito di passaggio, ovvero quando i partecipanti non mantengono più il loro stato pre-rituale ma non hanno ancora iniziato la transizione che terranno quando il rito è da completare.
Dopo il disorientamento iniziale ed evidente sui volti dei partecipanti, diversi rituali li hanno accompagnati nella fase transitoria (dove appunto hanno transitato lasciando traccia, ognuno con intensità diverse a seconda di quanto sono riusciti a so-stare nel percorso): dai giochi e attività di conoscenza del gruppo, ai laboratori per potenziare conoscenze e offrire nuovi strumenti per affrontare la realtà passando per le esperienze di volontariato e quelle residenziali, per mettere in pratica l’empatia e l’ascolto attivo e provare a “guardare” il mondo da un altro punto di vista. Senza dimenticare i colloqui individuali e l’orientamento al lavoro, dove hanno preso più coscienza di quelle risorse e capacità individuali indispensabili per poi riattivarsi e ri-affacciarsi al mondo del lavoro.
L’ambiguità è pian piano svanita, lasciando spazio alla chiarezza e la consapevolezza di sé, e il percorso si è completato, dopo interruzioni forzate che avrebbero potuto far disperdere energie e invece hanno attivato nel gruppo risorse inaspettate e creatività, capaci di conservare intatta la ritualità della fase transitoria e di mantenere il focus sul raggiungimento di un nuovo stato, ovvero quella transizione che tutti i partecipanti hanno infine concluso.
Si sono sof-fermati sul proprio limite, contemplando un modo in cui volevano essere e non riuscivano ad essere… magari non sono riusciti a cambiare come avrebbero voluto ma qualcuno ci ha provato e sono sicuro che questo progetto sia servito a ciascuno almeno per riflettere sul proprio limite, per provare a spostarlo un po’ più in là rafforzando così identità e obiettivi, e raggiungerne un altro, per non rimanere soli e senza desideri; un altro limite che possa costituire una nuova opportunità significativa per la loro vita e che rappresenta un “dopo di noi”, imprescindibile da quello che è stato.
Lo dimostra una breve lettera che uno dei partecipanti ha mandato alla sua assistente sociale, alla fine del suo tortuoso percorso, fatto di cadute e risalite, oscillazioni forti ma anche linearità:
“Ciao Ilaria sono D. Come stai? Spero bene. Ti scrivo questa mail per ringraziarti per l’opportunità che mi hai dato di partecipare a quel corso che mi hai consigliato dove finalmente ho conosciuto gente fantastica, dove mi hanno fatto sentire a casa e mi hanno dato l’opportunità di farmi conoscere come sono e anche di iniziare finalmente a lavorare…”
Opportunità, sentirsi a casa, accettare di farsi conoscere per quello che si è, consapevolezza di sé e delle proprie risorse, riattivazione personale e attitudine a nuove esperienze formative e lavorative: in parole chiave un’ottima sintesi di questo rito di passaggio chiamato “Fili di Trama”.
Stefano Arcagni