Io sono un resistente

Una storia lunga mezzo secolo: da Bergamo a Gaeta, passando per Capodarco 

Con Rossano Salvatore, Vicepresidente del CESC Project, come redazione di Appunti di Pace incontriamo a Grottaferrata, presso la sede della Cooperativa sociale Agricoltura Capodarco, il fondatore della Comunità don Franco Monterubbianesi e Antonio Riva obiettore di coscienza al servizio militare della prima ora.

Chiediamo ad Antonio da dove e come inizia la sua storia di obiettore di coscienza?

Era tanti, tanti anni fa. Erano gli albori del 1968.

Il mondo protestava per la guerra nel Vietnam, e non erano passati tanti anni dalla fine della seconda Guerra Mondiale, che mio padre mi aveva a sprazzi raccontato, lui che era stato in un campo di prigionia tedesco in Austria fino al 28 aprile del ’45.

Crescevo un po’ ribelle negli primi anni ’60, non mi ribellavo alla famiglia, ma non mi andava il mondo, non mi andava l’ambiente stretto delle valli bergamasche. Erano gli anni di Bob Dylan e Johan Baez che cantava “We shall overcome”, erano gli anni delle prime lotte operaie, che mi affascinavano. Invece di andare a scuola me ne stavo a distribuire volantini fuori dalle fabbriche, riuscivo perfino ad organizzarmi la vita, mentre la voglia di far politica cresceva potente e mi formava.

E fare politica era anche, per noi che in quegli anni fondammo il Comitato Pacifista Bergamasco, costruire iniziative per cambiare il modo in cui uno Stato affrontava e gestiva il problema militare, a partire dalla possibilità di consentire a chi non voleva fare il militare (all’epoca obbligatorio e della durata di 15 mesi) di potersi dichiarare obiettore di coscienza, con motivazioni politiche, ideologiche o religiose.

 

Ricevi anche tu la “cartolina precetto” per partire per il militare?

A diciotto anni e qualche mese, non essendo universitario ricevetti la cartolina.

La scelta fu praticamente naturale, la rispedii al mittente. A quel punto ero latitante e per quanto amici parlamentari ed avvocati avessero steso una sorta di rete protettiva per far in modo che non venissi arrestato casualmente, iniziò la mia vita di latitante.

I primi obiettori di coscienza c’erano stati, in quegli anni avevo conosciuto il primo italiano, Pietro Pinna, che già nel 1949 (l’anno in cui ero nato) si era rifiutato di fare servizio militare con motivazioni squisitamente politiche; andai a Roma a conoscere gli amici che già si erano organizzati attorno al Servizio Civile Internazionale, una delle cui principali attività era quella di organizzare campi di lavoro internazionali, estivi.

Un amico, che stava con me nel Comitato Pacifista Bergamasco, era di origine di Fermo e mi accennò alla Comunità di Capodarco, nata da un paio di anni per iniziativa di don Franco Monterubbianesi. Feci la valigia e partii senza pensarci due volte. Li conobbi don Franco, conobbi i ragazzi e le ragazze in carrozzina, magari sofferenti ma finalmente con qualche speranza per il loro futuro. Mi trovai a casa, io che non avevo ricevuto alcuna educazione religiosa in una famiglia laica, e mi feci coinvolgere nella vita della Comunità. Non si pensi alla Capodarco di oggi o ieri. Eravamo pionieri, incasinati ed anche io alla fine, portai in comunità un po’ di trambusto. Dopo un paio di mesi, accompagnato da mio padre, un pacifista che per gli scherzi della vita aveva dovuto fare quasi 11 anni tra militare, guerre coloniali, guerra mondiale e campo di concentramento, andai a consegnarmi al maresciallo dei Carabinieri del mio paese che ben conoscevo e che era amico di mio padre. E qui comincia tutta un’altra storia: il giro delle carceri militari italiane.

 

Intanto negli stessi anni nasceva la Comunità di Capodarco. Chiediamo a don Franco come era il clima in Comunità in quegli anni?

La Comunità di Capodarco nasce nel Natale del 1966.

Nei viaggi a Lourdes e Loreto – unica occasione in cui i disabili potevano uscire dagli Istituti dove venivano isolati – ebbi un’intuizione, cioè che qualcosa potesse cambiare nella vita di molti ragazzi e ragazze che, con la scusa d’improbabili terapie riabilitative, di fatto, erano bloccati negli “istituti”, ambienti chiusi e inutili: sottoposti a rigide regole istituzionali, separati tra maschi e femmine, senza possibilità di futuro. L’inizio è stato spontaneo, precario, utopico.

Ben presto i tredici disabili che abitavano con me, la villa abbandonata nelle Marche (a Capodarco di Fermo) diventano oltre cento.

Provenivano da varie regioni d’Italia: Campania, Friuli, Puglia, Sardegna, Umbria. Un secondo gruppo numeroso di giovani (italiani e stranieri) decise di partecipare all’esperienza che oscilla tra una “comune” e una “comunità”: sono i ragazzi e le ragazze del ’68 “minore”.

Se molti dei giovani contestatori si erano dedicati alla lotta politica, molti altri si erano diretti verso il sociale; altri ancora al mondo della cultura e della comunicazione.

 

Ritornando a dare la parola ad Antonio… Com’è è iniziato il giro delle carceri militari italiane?

Vengo portato al carcere militare più vicino a Bergamo, il forte austroungarico di Peschiera del Garda, con tanto di fossato attorno (per fortuna senza coccodrilli!). E lì finalmente — per loro — mi mettono una bella divisa militare. Mi hanno beccato, loro pensano: non è vero perché io mi sono consegnato spontaneamente. Pochi giorni, una specie di interrogatorio con il Procuratore militare ed il mio primo avvocato, Sandro Canestrini: l’unica cosa che mi chiede se sono un Testimone di Geova, perché già all’epoca nelle carceri militare ce n’erano parecchi.

“Il processo si dovrà fare a Torino, il Tribunale più vicino”.

 Come reagì la Comunità a questa notizia?

E scatta la mobilitazione: amici, compagni e la Comunità di Capodarco si mobilita. Nel capoluogo piemontese fu una scena da film: il vecchio tribunale militare di Torino invaso dalle carrozzine dei ragazzi di Capodarco che, guidati da don Franco, erano arrivati per testimoniare. I giudici militari, forse seccati, forse stupiti, non potevano che applicare la Legge: ero colpevole di “mancanza alla chiamata” e dovevo essere condannato pur con uno sconto minimo di pena perchè avevo commesso il reato con l’attenuante “per un atto di alto valore sociale”. Che era li davanti agli occhi dei giudici.

Tre mesi e venti giorni la condanna e vattene a casa con la condizionale.

Festeggiammo, ancora ricordo l’abbraccio della Comunità e dei tanti compagni e compagne venuti da Bergamo.

 

Come continua la storia?

Ma era solo l’inizio, perché passano poche settimane e Ministero della Difesa non si scorda di me e mi manda una nuova cartolina precetto.

Inizia la seconda puntata. Sono di nuovo latitante. Ed una bella notte – ero a Bologna per una riunione – mi svegliano due poliziotti in piena notte mentre dormivo in albergo e mi fanno vedere un ordine di cattura, tanto per cambiare per “mancanza alla chiamata militare”. Cominciavano gli anni del terrorismo ed il fatto che mi occupassi di militari aveva messo la pulce nell’orecchio di qualcuno del Servizi. Venni tenuto sotto interrogatorio qualche giorno in una caserma dall’allora Sifar, senza rapporto con gli avvocati e con i famigliari. Ma non ero chi cercavano e mi lasciarono in altre mani ed in altre manette. E poi via verso il carcere militare più vicino in attesa del processo: Roma, Forte Boccea. Un paio di settimane di camerone da 16 detenuti e si parte per il Tribunale Militare di La Spezia (Bologna dipendeva da quel distretto). Anche a La Spezia non sono solo e l’aula è piena, ma anche lì la condanna è scontata. Sono recidivo e mi becco quattro mesi e mi rispediscono — sempre in treno — a Forte Boccea.

A questo punto avvocati, amici parlamentari e famigliari mi consigliano di andare a fare il militare, perché avrebbero fatto in modo che fosse breve. E mi mandano in Sardegna anche se ci era stato assicurato che sarei stato pochi giorni a Roma e poi all’Ospedale militare per essere congedato. Ma non sarà cosi: faccio tre mesi di militare a Sassari finiti, invece di andarmene a casa mi spediscono a Messina. E non era un periodo tranquillo, in Calabria era scoppiata la rivolta di Boia chi molla, con tanto di attentati fascisti ai treni ed alle linee ferroviarie ed i soldati erano chiamati a presidiarle. lo evitai quel servizio e, finalmente, dopo una decina di giorni in Ospedale militare venni “riformato per costituzione gracile”. Congedo illimitato e definitivo. Neppure se fosse scoppiata una guerra mi avrebbero rimesso le stellette.

E poi c’è anche una puntata finale giusto?

Si ed è forse quella più incredibile.

Passa un anno abbondante ed una bella mattina – io avevo cominciato a lavorare come capo ufficio stampa in una associazione sindacale di piloti dell’aviazione civile — si presentano in ufficio due carabinieri che mi dicono che devono eseguire un ordine di carcerazione per scontare una pena residua di due mesi e venti giorni: la seconda condanna aveva annullato la condizionale della prima e i ragionieri militari non scordano nulla.

Ml impacchettano di nuovo, prima il ritorno a Forte Boccea, poi — nonostante le mie proteste e quelle del mio avvocato che esibiva il mio congedo militare — nel Reclusorio militare nazionale, il carcere (borbonico) di Gaeta. Le proteste dei legali giungono al giudice di sorveglianza che riconosce che non sono più militare e quindi li a Gaeta non ci posso stare. Mi scarcerano? No! Mi trasferiscono nel carcere civile più vicino, quello di Latina, da dove poi verrò trasferito a Terni perché era scoppiata una rivolta con tanto di materassi dati alle fiamme. Trasferimento non senza passare per tre giorni dal carcere di Regina Coeli, passaggio che mi ha fatto definitivamente acquisire la cittadinanza romana.

Vengo rilasciato due mesi dopo, a condanna “espiata”, esattamente alla stessa ora in cui mi avevano arrestato.

Non un minuto in più, ma neppure uno in meno.

Passano quasi cinquant’anni e, questa volta con una Pec, vengo convocato dal commissariato di Polizia del quartiere dove abito — Trastevere — che mi comunica che l’istanza presentata quattro anni prima per la ‘riabilitazione” è stata accolta dalla Corte d’Appello di Roma e che mi devo presentare per un interrogatorio nel quale un giovane poliziotto si accerterà del mio “regime di vita” e se mi stavo comportando da “onesto cittadino’

 

Abbiamo voluto inserire nella parola Patria, questa intervista ad Antonio Riva, in questo mese di Dicembre, in cui si ricorda la giornata nazionale del Servizio Civile, per raccontare l’esempio di chi, più di cinquant’ anni fa, con grande coraggio si è ribellato ad un modo di servire la Patria e lo Stato, lontano dai valori e dagli ideali su cui stava fondando la propria esistenza.

Per noi oggi, questo è un grande esempio di cittadinaza attiva e di impegno civile, che ci interroga e chiama ad agire, provando anche noi a muoverci in direzioni ostinate e contrarie al mondo attuale, ma mai contrarie ai propri valori e al proprio desiderio di essere insieme Patria e Giustizia collettiva.

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