Cinquant’anni fa poteva accadere a Roma che un ragazzino finisse ucciso mentre giocava lungo i binari della ferrovia, come oggi capita nelle periferie delle metropoli asiatiche o africane.
Dentro le povere abitazioni cresciute alla maniera di piante rampicanti sui ruderi antichi dell’Acquedotto Felice non c’era energia elettrica, né impianti idraulici.
Quando pioveva si gettava un’incerata sul tetto in eternit, senza sapere che fosse cancerogeno, nella speranza che tenesse.
Le persone che vivevano in quelle condizioni erano migranti italiani, in maggioranza provenienti da Villavallelonga, un comune in provincia dell’Aquila, ma anche da Calabria e Sardegna.”
Don Roberto era nato a Pontecorvo, nella bassa Ciociaria, nel 1935 e aveva frequentato la scuola di Barbiana di don Milani, poi si era trasferito in Francia per qualche anno, per studiare l’esperienza dei cosiddetti “preti operai”. Era un giovane prete, ex funzionario di banca, che dopo aver preso i voti non si accontenta di celebrare battesimi e matrimoni, ma si spinge a condividere profondamente un’esperienza umana di vita accanto alle fasce sociali più deboli della capitale, nella parrocchia di San Policarpo, dove nel 1968 era stato mandato a esercitare il suo magistero.
Entrando in contatto con le situazioni di degrado e povertà, che coloravano il quartiere di baracche, nel don Roberto sceglie di iniziare a vivere qui.
Erano dei quartieri dormitorio, veri e propri formicai umani alienanti, conseguenza della spregiudicata speculazione edilizia dei “palazzinari”, nonché dell’inesorabile processo di omologazione della civiltà dei consumi.
Don Roberto con altri giovani del posto, e gomito a gomito con trans e mignotte fondò la scuola 725, dal numero civico della baracca in cui era alloggiata, in uno spazio 3×3, che la giovane Rita, una prostituta, volle mettere a disposizione del gruppo.
L’obiettivo di Roberto Sardelli, non era solo quello di contribuire a colmare le imperdonabili lacune ed i ritardi lasciati dalla scuola di Stato, ma il suo desiderio era di “andare oltre”, invitando i giovani a rivendicare con coraggio ed orgoglio le loro umili origini per affermare con forza la loro dignità. Voleva aiutare i ragazzi a sviluppare una coscienza di classe e per far questo, i libri dovevano essere “armi” che potevano spingere i giovani a non tacere e lottare, per redimersi dalla loro condizione.
Si leggeva di tutto: dal Vangelo alla biografia di MalcomX, da Gandhi a Martin Luther King, fino ai libri di divulgazione scientifica; inoltre, nel corso di libere discussioni, si affrontavano i temi più disparati di attualità: dal divorzio all’aborto, e non si evitava affatto di scendere sul piano della politica. Insegnava loro a leggere il giornale, gli parlava della guerra in Vietnam e di quanto accadeva nel mondo. Li invitava a raccontare la loro storia scrivendo e disegnando, e compilava con loro una rivista che loro stessi battevano a macchina, ciclostilavano e poi distribuivano.
Con questo metodo, avevano preparato persino un libro di testo alternativo, scritto da loro stessi, con un linguaggio che li rappresentasse e argomenti vicini ai loro interessi. Un manuale alternativo, intitolato “Non tacere”, che suscitò la curiosità di molti intellettuali.
Per i residenti dell’insediamento all’ acquedotto Felice Studiare, infatti, era complicato studiare, nelle scuole venivano discriminati, spesso catalogati, senza possibilità di smentita, finivano in quei ghetti chiamati classi “differenziali”, che avevano l’unica funzione di traghettarli in qualche modo verso la terza media, senza passare per nessun apprendimento, esclusi dalla possibilità di proseguire gli studi (lo racconta uno di questi ragazzi, oggi divenuto a sua volta insegnante, nel documentario “Non tacere” di Fabio Grimaldi (2007)).
Come sosteneva Don Roberto: “La scuola non può non essere politica, perché solo così essa diventa strumento di educazione per tutti. Non dobbiamo separare la scuola dalla vita di questi ragazzi, ma cercare tra di loro i nessi profondi che vi sono. Le parole nascono dall’esistenza e da questa assumono il loro significato che diventa chiaro nella misura in cui l’adesione della parola alla vita si fa piena. Le parole ci servono per lottare”.
I ragazzi della scuola 725 tirarono fuori il loro coraggio e con determinazione scrissero una lettera aperta al sindaco di Roma per denunciare la grave situazione abitativa nella quale vivevano:
“Noi mandiamo questa lettera al sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto ed il dovere di sapere che migliaia di suoi cittadini vivono nei ghetti. Nella lettera abbiamo voluto dire una sola idea: la politica deve essere fatta dal popolo…”.
Sotto la spinta di questa necessità, decise di far scrivere loro una Lettera al Sindaco, e ottenne che potessero recapitarla in Campidoglio. La lettera ebbe molta risonanza e il sindaco Clelio Darida fu costretto ad accelerare i tempi per la risoluzione della baraccopoli. Nel 1973, le ruspe abbatterono finalmente i tuguri fatiscenti. Ma gli abitanti furono deportati in palazzine di Acilia e Ostia. Non era quello che si aspettavano. Ma l’insegnamento di don Sardelli rimase e cambiò per sempre il destino di quei ragazzi.
Ascoltandoli parlare, nel documentario di Grimaldi, colpisce la qualità del loro ragionare, la schiettezza della lingua e la volontà di mettersi in gioco. Ma soprattutto la fiducia nella politica come strumento per cambiare la società, opposta all’ ottuso, imperante, qualunquismo del “si salvi chi può”.
Documentario NON TACERE (Finalista David di Donatello 2009) on Vimeo