La gente deve sapere

Intervista a Massimiliano Nappi sul suo impegno civile tra Napoli, la Grecia e il Futuro.

di Roberta Iaccarino

Massimiliano è un ragazzo che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa.

Di lui sin da subito mi ha colpito la sua dedizione ad una causa alla quale per molti è difficile dedicarsi, perché crederci è un’impresa coraggiosa che richiede costanza, perseveranza, fiducia e speranza.

Di seguito trovate alcune domande che gli ho fatto nel corso di una nostra chiacchierata con l’obiettivo di dare alle sue parole l’opportunità di farsi conoscere e per dar voce alla realtà della Comunità di Sant’Egidio.

Massimiliano, raccontaci com’è nata la comunità di Sant’Egidio?

Nasce a Roma nel 1968, dopo il Concilio Vaticano II, per opera di Andrea Riccardi, un ragazzo di diciotto anni che, insieme ad altri amici del liceo, mette su un gruppo che, attraverso momenti di preghiera e atti di volontariato, inizia ad aiutare, a dare sostegno ai bambini delle baraccopoli dei quartieri periferici di Roma. Da quel momento, si dà vita ad un grande movimento che si diffonde in altre città italiane; il primo ramo fu Napoli, e dopo ancora fu la volta di Torino, Catania, per poi arrivare all’estero.

Tra le azioni più importanti per cui la comunità viene riconosciuta, si ricorda quella che l’ha vista come mediatrice della pace in Mozambico nel 1992[1]. Le Nazioni Unite non erano state in grado di riuscire in tale impresa, e allora ci si chiede come sia stato possibile che una comunità messa su da un gruppo di studenti del liceo diventi una cosa così grande da mediare per la pace, e con parole semplici, brevi e ci riesce con la costanza e la creazione di un clima diverso. Queste le armi non violente più forti della polvere da sparo o dal grido di una bomba.

Come ti sei avvicinato alla Comunità?

Avevo diciassette anni, ed un giorno, in classe, venne il responsabile della comunità, un professore che fece un invito a tutti i ragazzi per andare ad aiutare i bambini con i loro compiti alla Scuola della Pace[2] ai quartieri spagnoli. Dopo quella prima esperienza resto sorpreso perché scopro una Napoli che non mi aspettavo. Io appartenevo ad un’altra realtà e questa l’ho scoperta attraverso i minori che non vengono ascoltati da nessuno, una Napoli che grida aiuto.

Un ragazzino che conosco durante questa esperienza che mi mostra un mondo diverso, il mondo di un ragazzino lasciato a sé stesso, che aveva persino problemi con la giustizia. Ci mette tempo a fidarsi, del resto, conquistare la loro fiducia è una cosa difficile e delicata, soprattutto per chi, già alla loro tenera età, porta sulle spalle cicatrici le quali gran parte degli adulti non sanno quanto possano far male. Ma volevo dargli la possibilità di instaurare un rapporto di fiducia e, con  perseveranza, sono riuscito ad accogliere la sua silenziosa richiesta di aiuto.

Una volta superato l’ostacolo della fiducia tutto è cambiato, scopre in me un fratello maggiore. Frequentava la scuola della pace perché era il suo posto sicuro. È un luogo dove si creano integrazioni tra varie realtà.

Ai quartieri ci sono rimasto per quattro anni, e lo scopo non è mai cambiato. Non dimentichiamoci quanto Napoli sia salita sul tetto del mondo a causa della violenza, per cui bisogna cambiare la città partendo dai bambini. 

L’impegno negli anni successivi non si è fermato. Puoi parlarci della tua esperienza al campo profughi di Moria?

Il campo profughi di Moria[3] si trova sull’isola di Lesbo, di fronte alla Turchia. Nasce come centro hotspot dell’Unione Europea per smistare e meglio gestire i flussi di migranti che partono dalla Turchia verso l’Europa. L’isola ha messo in difficoltà tutte le politiche migratorie fino a quel giorno adottate poiché è arrivata ad accogliere numeri impressionanti di persone che ha toccato il picco delle 20.000. Nel 2015, si assiste ad una crisi che arriva all’apice nel 2020.

Vado lì, insieme ad altri volontari della comunità per la prima volta a gennaio 2020, il campo ospitava 21.000 persone suddivise in due parti; la parte ufficiale con 3 mila posti in dei container e la parte restante all’esterno dell’aria ufficiale, su di una montagna, una vera e propria collina di ulivi. Qui, hanno iniziato a impiantarci tende abusive fatte di lamiere, di paglia, tutto materiale di fortuna. “La comunità li ha impattato con una realtà che non si aspettava” e insieme ai miei compagni si siamo ritrovati difronte ad una situazione surreale. Abbiamo visto e conosciuto migliaia di persone camminare senza scarpe, né luce, né riscaldamenti, tutto questo in piena Europa. Per me gennaio 2020 è stato uno shock perché forse, per la prima volta, potevo vedere con i miei occhi gli effetti della guerra e della conseguente povertà che questa genera.

Nel campo di Moria ho incontrato persone dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Africa. Migliaia di persone attraversavano la rotta balcanica. Il problema è sorto quando la Grecia, non avendo ricevuto alcun aiuto dall’Europa e dagli altri stati, si è ribellata nel 2020, diventando violenta proprio nei confronti dei migranti, la parte più debole.

In che modo la Comunità ha potuto dare supporto?

A gennaio, una delle azioni fatte per i migranti è stata quella di farli uscire dal campo e portarli, con navette e pullman, ai ristoranti, per permettere loro di consumare veri e propri pasti per dare loro dignità attraverso i pasti, donare un momento felice in famiglia, felicità che riuscivo a vedere attraverso i loro sorrisi. In otto giorni, sono riusciti a portare a cena circa settecento persone.

Tutto questo può sembrare facile, forse ancora non abbastanza forte. E allora bisogna menzionare anche la questione dei giovani abusati, che ne sono tanti. Questo perché lì non c’è garante, né controllo, né luce di notte. E se questo istiga un mal vivente nella città più benestante del mondo, figuriamoci in un campo hotspot dove vige la regola della sopravvivenza. Questa costante condizione di pericolo però per molte persone, che pensavano di trovare un rifugio lì, era forse ancora più insostenibile della guerra da cui scappavano, e questo ha spinto loro al suicidio.

Vedevo coetanei e ragazzi ancora più giovani che non avevano più sogni, speranze per un futuro diverso, sui quali nessuno ci avrebbe scommesso, nessuno su questo mondo ricco che è l’occidente e i loro sogni travolti dalla loro totale indifferenza.

Ma una sera, durante una delle cene un ragazzo mi disse: “mi ero dimenticato cosa significasse essere felice” e forse è a questo che bisogna puntare, offrire a chi ne ha bisogno piccoli momenti felici, con la speranza che ritrovino i loro sogni.

La seconda volta che sono tornato al campo era in estate, perché la comunità organizza la vacanza solidale, che raccoglie 150 volontari da vari paesi europei ed oltre ad offrire pranzi e cene, fanno la scuola della pace ai rifugiati, tra i quali si contavano circa 300 bambini e corsi di inglese per gli adolescenti, questo come primo passo verso una speranza di integrazione e di inclusione.

Il tutto con non poche difficoltà perché ostacolati dalla stessa Grecia. Sono da esempio vari episodi, come quello di un giorno in cui si chiuse il centro e la comunità non poté agire, ogni tanto per strada episodi di razzismo come il rifiuto di alcuni alberghieri di ospitarli nelle loro strutture. E mentre la Grecia viveva in libertà da marzo a settembre, nel campo si stava in pieno lockdown, e molti dei rifugiati trovati fuori dal campo sono stati addirittura multati.

Dal 1° gennaio al 9, siamo tornati con una serie di domande interiori. Quasi nessuno conosceva questa realtà. Siamo partiti a manette con testimonianze, incontri. Siamo tornati a razzo e da subito abbiamo voluto denunciare quello che abbiamo visto. È assurdo che nel 2020 c’è una situazione del genere a casa nostra, nei confronti di migliaia di persone”.

In qualche momento ti sei sentito impotente di fronte ad un’esperienza del genere?

Ti senti impotente perché non puoi prendere le persone fisicamente e portarle in un posto più sicuro, ma bisogna non perdere il contatto con loro e con le altre persone vicine. La cosa importante per loro era sapere che c’era chi li stava pensando. L’impotenza c’è ma se si crede in un sogno più grande si può realizzare. Quello che ho imparato negli anni è che superi l’impotenza se riesci a convertire la rabbia in qualcosa di costruttivo di bello e di speranza. Credo che questo negli anni mi abbia permesso di non abbandonare quello che faccio.

Quale messaggio vorresti dare ai giovani lettori di Appunti di Pace?

La gente deve sapere che centinaia di bambini camminano scalzi nel fango con 5 gradi.

La gente deve sapere che in Grecia, nel campo profughi di Moria, vivono 19.000 persone ammassate nelle tende con un freddo cane.

La gente deve sapere che Husain con tutta la sua famiglia scappa dalla guerra in Afghanistan e condivide un bagno con 150 persone.

La gente deve sapere che Mohamed, Alì e Mustafa stanno scappando dal terrorismo in Somalia e che hanno le cicatrici in faccia.

Con Sant’Egidio abbiamo portato più di 300 persone fuori dal campo per fare pranzi e cene di Natale e vivere momenti di gioia insieme. Hanno dimenticato per qualche ora le ingiustizie che vivono in questo mondo.

Questa è la storia di Massimiliano e della comunità di Sant’Egidio, ai quali io ho deciso di dar voce affinché si sappia che, oltre al brutto del mondo, c’è anche chi cerca di sconfiggerlo per quello che può.

[1] https://www.santegidio.org/pageID/30384/langID/it/LA-PACE-IN-MOZAMBICO-1992.html

[2] https://www.santegidio.org/pageID/30080/langID/it/GIOVANI-PER-LA-PACE.html

[3] https://linchiostro.it/lhotspot-di-moria-il-campo-profughi-piu-grande-deuropa/

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