Sulla “carta” da anni è stata abolita la schiavitù, in realtà, in un contesto di migrazioni di popoli, oggi, in maniera drammatica ci troviamo di fronte ad una nuova forma di violazione dei diritti umani: la tratta degli esseri umani, in particolare di donne e minori, a scopo di abuso sessuale. In Italia, secondo alcune statistiche, si parla di 25-30 mila donne immigrate costrette a prostituirsi in strada, in appartamenti o in altri locali, mentre dall’altro versante si calcola che siano circa 9 milioni i clienti italiani. Nei dodici anni di presenza a Caserta la Comunità Rut delle suore Orsoline SCM, in fedeltà alla missione dell’Istituto “promozione umana e cristiana della donna”, ha accolto più di 260 giovani, molte delle quali incinta.
Casa Rut, (Comunità RUT (associazionerut.it)) è diventata per queste giovani donne spazio di vita e di speranza. La comunità apre le porte l’8 marzo del 1997, da una data scelta non casuale di quattro suore orsoline partite dal nord-est di Italia alla volta di Caserta due anni prima.
Il nome scelto del progetto ambizioso e speranzoso è Rut, come la donna moabita che, secondo il racconto biblico, rimasta vedova, sceglie di seguire in terra straniera la suocera, Noemi, vedova anche lei. Donne che hanno scelto di incontrare altre donne, in vista di un riscatto e di una prospettiva di vita diversa. La piccola comunità religiosa delle suore orsoline era guidata da Rita Giaretta originaria di Quinto Vicentino, cinquantacinquenne, infermiera, militante del sindacato, da sempre dalla parte delle donne, la quale dopo un anno di lavoro nel carcere femminile, poi chiuso e trasferito fuori città, attraversando le strade del casertano, si accorge di numerose giovani donne straniere, in maggioranza africane e dell’Europa dell’est, costrette con la violenza a prostituirsi. Racconta così suor Rita Giaretta, nel suo libro “Non più schiave. Casa Rut, il coraggio di una comunità”:
«l’8 marzo del 1997 siamo scese per la prima volta in strada, con la nostra macchina scassata, caricata di piccole piantine di primule, per incontrare queste donne, con paura e circondate da persone che ci scoraggiavano, che ci mettevano in guardia dai pericoli, dal racket. In due ore abbiamo incontrato più di quaranta ragazze sulla strada».
Storie di violenza fisica e psicologica – soprattutto nei confronti delle donne africane soggiogate dai riti woo-doo, umiliazioni quotidiane e rischi costanti. Da qui nasce Casa Rut, un «luogo di accoglienza e una possibilità concreta di riscatto per coloro che ci chiedevano di aiutarle a lasciare la strada». Tre appartamenti al piano terra di un condominio nella centralissima corso Trieste, in cui si può vivere insieme ma in totale autonomia. Una scelta che «offriva sia a noi sia alle ragazze – spiega suor Giaretta in un’intervista di Stefano Blasi – maggiore protezione e possibilità di relazione con la città, ma che aveva anche un forte significato simbolico: dare una possibilità e riconoscere il diritto a queste giovani donne, relegate ai margini delle strade e delle periferie, di abitare la città e provocarla a farsi spazio di accoglienza». Non come favore, ma come diritto, a cominciare dai servizi, come la sanità e la scuola, e il lavoro. «Avremmo potuto creare una struttura dove fare assistenza, accogliere tante persone, dare da mangiare, da dormire, ma abbiamo scelto di fare altro», prosegue: «Percorsi di integrazione e di liberazione personalizzati che coinvolgano un numero limitato di persone che il territorio sia in grado di sostenere, perché crediamo che sia il territorio a dover dare le risposte. Il medico non deve lavorare dentro Casa Rut dal momento che c’è l’Asl a doversi occupare della salute delle persone, non vogliamo la scuola privata in casa, visto che esiste una scuola statale e pubblica. Cerchiamo di lavorare e di lottare per i diritti delle donne e degli uomini, e io non devo sentirmi obbligata a dire grazie, non devo inchinarmi, perché chiedo il riconoscimento e il rispetto di un diritto. Le logiche dell’assistenza, dell’emergenza, del favore clientelare sono sempre dei cappi al collo che tengono le persone nella dipendenza».
«Le parole delle donne moldave, polacche, albanesi, nigeriane, marocchine, raccolte in queste pagine – scrive Dacia Maraini nell’introduzione – sono altrettanti indici puntati contro l’ipocrisia di una società, la nostra, che tratta il fenomeno della prostituzione come un problema di ordine pubblico e contro un mondo in cui la violenza patriarcale sulle donne continua a essere ovunque all’ordine del giorno».
Di seguito riportiamo alcune righe della testimonianza di Katarina, presenti nel libro “Non più schiave” a pag.46.
“ Katarina, diciannove anni, grandi occhi verdi. Nel suo paese, la Moldavia, legge un annuncio per la ricerca di personale. Telefona al numero indicato. Comincia così il suo viaggio: non un viaggio di speranza, come lo aveva immaginato, ma un viaggio all’inferno, com’è stato nella realtà. Katarina attraversa mezza Europa, dopo essere stata venduta nove volte. Da un acquirente all’altro, da una frontiera all’altra, fino ad arrivare in Montenegro, dove si ritrovava con altre ragazze. Tutte in un garage, vengono fatte svestire, e, completamente nude, esaminate dai mercanti, negrieri del XXI secolo. Dopo l’accurato esame, sono smistate in varie nazioni. Katarina è destinata all’Italia, per la moderna tratta delle schiave del sesso, la cui vita continua sulla strada, e per molte finisce lì. A Katarina è andata meglio. Aiutata da uno dei suoi clienti (a volte la salvezza arriva anche così), si rivolge a Casa Rut. Qui viene accolta dalle suore.”
Altro passo che voglio riportare in questo articolo, nato nel maggio 2004 da parte della comunità Casa Rut è la Cooperativa Sociale NewHope, una sartoria etnica, in cui le donne migranti possono riappropriarsi della propria dignità attraverso il lavoro. La Cooperativa è sorta dal bisogno di superare le troppe forme assistenziali che si sono sviluppate intorno al fenomeno migratorio ma che non liberano le persone, e non restituiscono piena dignità a chi ha vissuto sulla sua pelle quella forma di schiavitù che è la ‘tratta degli esseri umani’. Nel corso degli anni la Newhope è divenuta una possibilità concreta di riscatto, il ‘segno’ possibile di un’economia solidale, oltre che espressione di impegno costante nella lotta contro la tratta. L’apertura del punto vendita NewHope Store, nel cuore della città, ha contribuito a rendere più visibile tale testimonianza.
Alessia Saini
Di seguito il sito della cooperativa.