OSPITALITÀ – L’estraneità dell’ospite

Straniero, se tu passando mi incontri
e desideri parlare con me,
perché non dovresti parlarmi?
E perché io non dovrei parlare con te?
Walt Whitman

Soffermiamoci su questa citazione di Walt Whitman. In fondo è una domanda banale: perché dovremmo avere remore a parlare con uno “straniero”? Perché dovremmo precluderci la sua conoscenza?

Come sappiamo, il termine ospite ha origini lontane e indica colui che sostenta o nutre i forestieri. Essa deriva infatti dalla radice hos/host ovvero «straniero, pellegrino, forestiero» e dalla radice pa, cioè «sostenere, proteggere». Pertanto, il forestiero è colui che attraversa le foreste per raggiungere un determinato luogo, nel quale troverà (o non troverà) ospitalità.

L’accezione che identifica l’ospite come colui che offre ospitalità esiste ancora oggi, anche se nell’uso comune viene indicato come ospite solo colui che viene ospitato. Potremmo dire che questa deriva è un segno della società contemporanea, che ha perso la capacità inclusiva di un tempo. Oggi lo straniero è un estraneo che dà fastidio piuttosto che essere un’opportunità di relazione sociale e di rinnovamento culturale.

E’ imprescindibile legare il concetto di ospitalità con quello di estraneità. Tuttavia, dall’estraneità molto spesso ricaviamo una sensazione di smarrimento e sgomento, quando sarebbe più naturale e sicuramente più produttivo rapportarci con l’estraneo attraverso la curiosità. Un atteggiamento curioso stimola la comprensione reciproca e, di conseguenza, la conoscenza e la commistione culturale.

A tal proposito, mi ha colpito un episodio raccontato dal noto accademico di Psicologia Clinica Renzo Carli nella sua monografia “Culture giovanili”, che qui riportiamo:

“Certo, per avere rapporti con l’estraneo servono modi e convenzioni di relazione; ricordo un lungo viaggio in Finlandia, qualche anno fa: a nord del lago Inari inizia un vasto territorio, un paio di giorni di viaggio in automobile, tra terre selvagge e disabitate, colline e pianure erbose, completamente disabitate, la terra dei Sami (da noi denominati Lapponi). Versa sera vediamo una capanna, lontana oltre i bordi della strada: incuriositi ci fermiamo e dalla tenda, del tutto simile a quella degli “indiani” d’America, esce un Sami anziano, con la pipa in bocca, con vesti coloratissime e un cappello a tre corna, blu e rosso, in capo. Dietro di lui una donna, con vesti altrettanto variopinte ed eleganti, con una cuffia rossa e gialla. Ci salutiamo con ampi sorrisi, e qui inizia una fitta conversazione, in lingua Sami-italiano, tramite la quale “parliamo” del cappello Sami e chiediamo se era possibile comperarne uno analogo. Il Sami ci spiega che l’interno è imbottito con il pelo della gola di renna, il più soffice e pregiato, mi fa provare il suo cappello, che mi va un po’ stretto, ne prende con lentezza e pazienza un altro dalla tenda: questo va bene e con poche frasi, sempre nelle nostre lingue, ci accordiamo sul prezzo, cambiamo marchi finlandesi in corone norvegesi (oramai eravamo in Norvegia, senza accorgercene), ci salutiamo, molto cordialmente, e riprendiamo il viaggio. Quei Sami, certamente allevatori di renne (o inseguitori, visto che le renne vanno un po’ dove pare a loro, con i Sami dietro…) avevano anche il loro piccolo business con i rari turisti che si avventuravano per quella strada fuori mano, parallela a quella più frequentata (si fa per dire) che unisce Finlandia e Norvegia. Certo eravamo estranei l’uno per l’altro… ci hanno chiesto da dove venivamo, ed alla parola Italia hanno assunto l’espressione di chi non capisce… forse è stata l’unica parola non chiara… tra noi.

Nonostante questa “distanza”, ci siamo capiti, abbiamo “fatto affari”, ci siamo anche reciprocamente conosciuti. Qual era la regola del gioco? La cordialità serena, il tono della voce appena sussurrato, per non turbare il silenzio che ci circondava, i gesti lenti e controllati, il convivere su un reciproco interesse, ma anche la manifestazione di curiosità che metteva da parte ogni diffidenza, il sentimento che c stava reciprocamente divertendo, in quello strano ed imprevisto incontro. Il cappello a tre punte, che abbiamo acquistato, era davvero bellissimo, fatto a mano, spesso e caldo, con panni pregiati. Nella “capitale” dei Sami c’era un negozietto di cappelli, ormai industrializzati, senza paragone con quello acquistato dall’“estraneo”, cordiale amico di strada. Qui ho parlato dell’estraneo come appartenente ad un popolo, ad una razza e ad una cultura diverse.

L’estraneo s’incontra anche sulle strade di casa. E’ estraneo chi aspetta il bus alla mia stessa fermata; è estraneo lo studente che fa l’esame con me all’Università, senza aver mai frequentato; è estraneo chi mi sta leggendo, e può non concordare con quanto sto sostenendo con questo lavoro Per produrre convivenza è necessario, ogni volta, trovare regole del gioco per regolare, appunto, il rapporto con quest’estraneità.”

E noi, vogliamo trovarle queste regole del gioco?

Il tempo stringe come ci ricorda Alex Zanotelli, missionario italiano, nonché direttore della rivista Nigrizia, punto di riferimento importante per la diffusione di una cultura della mondialità e per i diritti dei popoli.

E’ un allarme stavolta, a tutti i coinquilini, per ricordarci che la lotta per salvare la nostra casa, con tutti i suoi abitanti, è urgente.

 

 

Gianmarco

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