Don Juan, per gli amici Juanito, è un utente del centro diurno per persone disabili nel quale faccio servizio.
È più anziano di tanti altri, ma ciò che lo contraddistingue è che a differenza di molti ragazzi, non è nato con disabilità.
Mi ha subito colpito, non tanto per le condizioni fisiche (ha sempre un bastone con sè che sorregge la parte di corpo paralizzata), quanto per lo sguardo che possiede: imprigionato, eppure sereno.
Non è chiara la sua storia – si racconta che sia caduto, dicono che bevesse molto, altri pensano sia stato un ictus – ciò che è chiaro è che abbia subito un forte trauma al cervello che ha fatto sì che da quel momento non potesse più muovere la parte destra del corpo e avesse problemi ad esprimersi. Juanito è ancora in grado di capire tutto, ma al momento di rispondere alla domanda che gli è stata rivolta, non è in grado di pronunciare altre parole che non siano “oso” e “muda”.
Non so bene per quale ragione mi ci sia legata in maniera particolare, so solo che all’inizio mi divertiva continuare a fargli domande che potessero solo avere risposte negative o positive, e poi aveva sempre il sorriso stampato sulla bocca, sembrava sempre di giocare con lui. Effettivamente ci gioco a scacchi, e devo dire che non mi ha ancora lasciato vincere una partita.
Un giorno ho deciso di accompagnarlo nella sua passeggiata giornaliera per il parco vicino all’associazione. Da lì abbiamo preso l’abitudine di farla insieme, ed ogni volta che lo vedevo mettersi il cappellino, pronto ad uscire, lo seguivo saltellando.
Si fermava ogni tanto per riposarsi e riprendere fiato, ma dopo un po’ mi sono accorta che sceglieva sempre la stessa panchina per sedersi, e con sguardo malinconico cominciava ad osservare una casa al di là della strada. Ho inizato ad indagare – per quanto possibile – con una raffica di domande. Perché proprio quella panchina? Perché quella casa? Perché quello sguardo? Perché tutta questa tristezza? Ci vive qualcuno che conosce? Ci viveva lui prima?
Ancora adesso non so se i suoi continui cenni d’assenso fossero delle risposte alle mie domande, o semplicemente fossero rivolti al suo flusso di pensieri, e la cosa che più mi stupisce è che non potrò mai venirne a conoscenza. Che cosa vuol dire non poter condividere ciò che si ha dentro? Quanto dev’essere alienante un’esistenza cosciente ma senza possibilità di espressione? Questo mi chiedo guardandolo negli occhi, gli stessi occhi che brillano, al posto di essere bagnati, ogni volta che mi annuncia scacco matto – a suo modo- per l’ennesima volta.
Giorgia Zilli
Volontaria in Servizio Civile in Ecuador
Sede di Quito