Quando si atterra a El Alto dopo un lungo viaggio ci si sente strani.
L’aeroporto, situato a 4.061 metri sopra il livello del mare, è il sesto per altitudine nel mondo e già dopo alcuni passi, schiacciati dal peso delle valigie, si inizia a percepire un leggero malessere, il respiro si fa lievemente affannato e si è colti da qualche inaspettato capogiro.
Penso: “bene, questa sarà la mia casa per i prossimi mesi, ottimo inizio Martina”. A dir la verità tranne in alcune sporadiche situazioni di sforzo fisico (diciamo che a queste altitudini non muori dalla voglia di iniziare subito un percorso di allenamenti e sport) nessuno di noi ha mai sofferto di mal di montagna e dopo alcuni giorni di acclimatamento, la vita ha spontaneamente rallentato al ritmo pacato e disteso dei boliviani. Per darvi approssimativamente un’idea della lentezza andina potrei definire, mettendole a confronto, una qualsiasi cittadina del sud Italia alle 14 del pomeriggio, nel pieno della calura di agosto, come frenetica. E per chi come me ha da sempre un’indole pigra, dopo un primo canto angelico e l’illusione di aver finalmente trovato il proprio posto nel mondo, questa peculiarità potrebbe rivelarsi leggermente deleteria.
La Bolivia, rispetto ad altri luoghi che ho avuto la fortuna di conoscere e visitare nel corso degli anni, si è fatta strada dentro di me con un’insolita discrezione. L’impatto è stato dolce e apparentemente poco estraniante, mi ci è voluto del tempo per cogliere le sfumature e lasciarmi stupire dalle sue molteplici meraviglie:
IL MERCATO. Che il mercato rappresenti uno spaccato del paese di riferimento in cui ci si trovi è una considerazione ormai più che assodata. I mercati boliviani colpiscono per il loro brulicare di persone e per il loro essere musicati da un vociare senza sosta che riempie morbidamente le orecchie. Le cholitas, le donne indigene, sono la vera anima di questi luoghi: alcune chiacchierano tra loro, altre sono intente a contrattare la compravendita dei prodotti, altre ancora dormono esauste in mezzo alle piramidi di ortaggi o recitano come un mantra la cantilena con cui cercano di richiamare i clienti all’acquisto. Portano i lunghi capelli neri intrecciati sulla schiena e delle pesanti gonne stratificate che gli conferiscono un fascino e una femminilità povera, un po’ goffa e autentica al tempo stesso. Nel caos ordinato che abita i banchi di frutta e verdura mi sento avvolta da una piacevole sensazione di rassicurante calma e familiarità e, seppur per pochi attimi, ho l’illusione di conoscere questo posto da sempre.
L’AGUAYO. Chiunque sia stato in Bolivia non può non conoscere questo fondamentale accessorio. L’aguayo è un telo di varie dimensioni generalmente a strisce colorate al cui interno le donne boliviane portano ogni genere di cosa: dagli animali, al raccolto dei campi, ai bambini, al cibo. Le abuelitas, le donne anziane con cui lavoriamo ogni venerdì, amano condividere fra loro e con noi il cosiddetto apthapi, una tradizione rurale aymara che prevede la convivialità e lo scambio all’aria aperta di prodotti, ingredienti, cibo naturale e stagionale, custoditi e organizzati in modo ingegneristico all’interno dei propri aguayos, i quali vengono predisposti al momento del pasto al centro e alla portata di tutti. Ognuno porta ciò che ha da offrire e lo mette a disposizione della collettività che qui in Bolivia ha SEMPRE un valore maggiore rispetto al singolo individuo e, per chi come noi arriva da culture radicalmente e irreversibilmente individualiste come quelle occidentali, poter ancora riscoprire il senso comunitario della vita rappresenta un’esperienza impagabile.
LA WIPHALA. La wiphala è la bandiera quadrata simbolo dei popoli nativi indigeni che vivono nei territori andini e che in passato facevano parte dell’impero Inca a cavallo tra Bolivia, Perù, Ecuador, Cile e Argentina. In essa si sintetizzano i colori dell’arcobaleno e, così come l’arcobaleno è composto da diversi colori, anche il movimento indigeno racchiude in sé molte etnie e culture differenti, ed è proprio per questo motivo che si impegna a difendere la dignità, la giustizia sociale, il diritto alla diversità e l’armonia che dovrebbe essere garantita a tutti i popoli amerindi. Ogni colore esprime valori e concetti cardine di queste culture. Il bianco rappresenta il tempo, l’arte e il lavoro, ed è sempre collocato al centro della bandiera. Il verde è simbolo della ricchezza della natura, della terra, della flora e della fauna: la Pachamama. Il giallo, emblema della forza, dell’energia, della fratellanza e della solidarietà, è espressione dei principi morali della cultura andina. L’azzurro indica il cosmo, l’astronomia, la fisica, la gravità a cui tutto è soggetto e l’insieme dei fenomeni naturali. L’arancione rappresenta la cultura, la procreazione, la salute, la medicina e l’educazione. Il viola è simbolo della politica e dell’ideologia andina, basata sull’organizzazione sociale, economica e culturale che deve necessariamente farsi espressione concreta della collettività. Il rosso, infine, raffigura il pianeta terra e l’uomo andino nello sviluppo intellettuale e nella filosofia cosmica. L’articolo n. 6 della nuova Costituzione dello Stato Plurinazionale della Bolivia, entrata in vigore nel 2009, stabilisce che la wiphala è un simbolo patrio, al pari della bandiera nazionale rossa, gialla e verde, e in questo contesto, oltre ad essere cromaticamente un oggetto accattivante, è emblema e testimonianza di un orgoglio popolare che si traduce nella fiera ostentazione e rivendicazione di un’identità ancestrale, territoriale, indigena, che prescinde qual si voglia confine geografico.
IL SALUTO. Dopo dieci anni di indifferenza sabauda quasi mi ero rassegnata ad un’esistenza in cui non avevo la più pallida idea di chi fossero i miei vicini di casa e solo ed esclusivamente le persone che potevo affermare di conoscere veramente mi degnavano di un cenno di saluto. In innumerevoli occasioni, e qui coloro che vivono a Torino potranno capirmi, mi sono ritrovata nella situazione di salutare qualcuno e non ricevere alcun tipo di risposta come fossi dotata del mantello dell’invisibilità. In Bolivia, invece, si saluta sempre e si saluta tutti. Vecchi, donne, bambini, autorità, campesinos, professori, lustrascarpe, ambulanti, operai, ragazzini, se incroci qualcuno sul tuo cammino la buona educazione prevede che ci si scambi una formula di saluto e di rispetto reciproco. E contro ogni previsione piemontese, vi assicuro che al mattino non c’è niente di più piacevole ed energizzante che ricevere decine di sorrisi e “buongiorno” da sconosciuti che semplicemente danno importanza alla tua presenza.
LA NATURA. Ogni mattina quando mi sveglio e salgo a fare colazione la mia finestra sul mondo, quella della cucina, mi regala uno straordinario scorcio sul lago Titicaca. Nel piccolo villaggio dove viviamo non ci sono grandi distrazioni e il tragitto che collega la nostra casa al centro educativo dove lavoriamo è un susseguirsi di umili e graziose abitazioni in terra e campi coltivati, mentre sullo sfondo si intravede e ci accompagna l’immancabile lago. Quando piove la strada sterrata si trasforma in una palude di fango, se il clima invece è troppo secco si genera una polvere sottilissima che ci soffoca e ci accieca ad ogni folata di vento. In casa non esiste l’acqua calda, a volte non esiste nemmeno l’acqua, laviamo tutto a mano congelandoci le dita e non abbiamo il riscaldamento, però mai come in questi mesi ho imparato ad apprezzare le giornate di sole, a sentire intensamente le sensazioni sul mio corpo, l’odore della pioggia che entra dagli infissi e la sera quando fuori si scatena il temporale io e i miei compagni amiamo spegnere la luce e guardare lo spettacolo di fulmini che si tuffano nel lago. Certo, i viaggi in luoghi straordinari dove i fenicotteri, come equilibristi, si riflettono nello specchio del Salar di Uyuni che sdoppia il mondo è qualcosa di indescrivibile e sono momenti come questi che ti ricordano che sei vivo, ma quello che sto riscoprendo qui è una natura banale, ordinaria, prepotentemente disturbante, ma allo stesso tempo capace di ristabilire un contatto con la terra che rimane sopito tra le mura piene di confort nelle nostre case in Italia.
ARUSKIPT’ASIPXAÑANAKASAKIPUNIRAKISPAWA. Quando digiti tasti a caso sulla tastiera del computer questo potrebbe essere un risultato plausibile. E invece no, esiste sul serio. La parola più lunga al mondo è una parola aymara. Umberto Eco, che era un grandissimo estimatore di questa lingua, lo sapeva… noi no. A distanza di mesi nessuno di noi ha ancora imparato a pronunciarla correttamente, ma mi sono ripromessa che saprò dirla come una scheggia prima del mio rientro a gennaio. Il principale motivo però per cui ho deciso di inserire questa parola in chiusura di articolo è il suo meraviglioso significato, materiale e immateriale. “Siamo obbligati a comunicare tra di noi nonostante le conflittualità che manifestiamo e attuiamo nell’agire tra noi esseri umani e alle quali possiamo trovare una soluzione solo attraverso il confronto e l’ascolto reciproco”. Incredibile come qualche pugno di lettere possano celare un messaggio così profondo che nella nostra lingua si può tradurre solo attraverso un complicatissimo panegirico. Ecco, personalmente credo che questo sia l’insegnamento che sto maturando in quest’anno di servizio civile all’estero. Bisogna smettere di guardare secondo una visione etnocentrica del mondo tutto ciò che ci circonda ed è perciò necessario riuscire a indossare altre lenti grazie alle quali analizzare, filtrare e scrutare la realtà da un punto di vista nuovo. Senza comunicazione, senza ascolto, senza rispetto delle differenze si prepara solo un terreno fertile per l’incomunicabilità, la prevaricazione ideologica di una delle parti e il conflitto. Sono consapevole che tra il dire e il fare c’è di mezzo moltissimo lavoro e della sana e comprensibile frustrazione, però la soluzione è ha portata di mano e non credo si discosti molto dall’ARUSKIPT’ASIPXAÑANAKASAKIPUNIRAKISPAWA.
Martina Faggion
Volontaria in Servizio Civile in Bolivia
Sede di Huatajata