Il servizio civile offre la possibilità di svolgere un periodo di incarichi d’assistenza e utilità comunitaria, un’occasione talvolta unica di crescita personale, nonché uno strumento prezioso per aiutare le fasce più deboli della società contribuendo allo sviluppo sociale e culturale del paese. Questo è quello che lessi tra le tante pagine web; un’opportunità pensai. Per migliorare, per migliorarsi.
Uno spazio-tempo della durata di dodici mesi. Un tuffo colossale, un tonfo improvviso, le acque ti accolgono lasciandoti immerso in una dimensione parallela: sembra di nuotare verso un lungo traguardo da raggiungere con sé stessi; bracciata dopo bracciata la ricerca nel perseguire un punto di arrivo e di equilibrio tra le proprie debolezze, forze e ambizioni è continua e la realtà che ci ospita non è quella che normalmente viviamo nella nostra piccola bolla di casa.
Ho scelto di svolgere il mio servizio civile in Argentina, nella comunità di Maximo Paz, una cittadina che si trova a circa 70 km dalla Capitale di Buenos Aires.
Qui l’associazione “Es tiempo de Jugar” si occupa di promuovere il diritto all’educazione e al gioco, garantendolo come mezzo per sopperire e uscire da problematiche sociali come la povertà, la violenza e le conseguenze che ne derivano, tutto questo creando reti e servendo da ponte tra le varie istituzioni, la comunità e gli attori che ne fanno parte.
Una tra le tante attività del nostro progetto è il sostegno che noi volontari prestiamo in alcuni Jardin del quartiere, scuole materne dove il nostro compito è quello di affiancare “le Seño” nella didattica diurna.
Il Jardin destinatomi è il 917, piccolo e racchiuso, con ancora pochissimi strumenti utili per affrontare le giornate e le varie attività del calendario annuale.
La sede da raggiungere è poco lontana da Petion, il luogo in cui viviamo. Prendere il treno della “linea Roca” (o chanchita della speranza) che ci porta nel pueblo del caos tutte le mattine è come fare ogni giorno il viaggio della vita: mi incammino con in tasca un po’ di tutto, so in parte quello che mi aspetta, in parte quello che trovo, tutto il resto è vita.
La giornata inizia, mi lascio andare al susseguirsi di piccoli grandi eventi in questo luogo incontro con i bimbi. Le coloratissime pareti della classe celeste mi danno il benvenuto. “Buenas tardes nenas y nenes,” incalzo, “como están”? rompo il ghiaccio. S. la bimba biondina e grandoccia mi viene incontro, mi abbraccia: “te extrané Seno!” esclama sorridendo. A., la morocha sempre imbronciata la segue, lei però piange, chiede conforto: “Yo quiero mi mamá”, ripete singhiozzando; da qualche giorno è inquieta, cerchiamo di capire, di studiare. Qui lo facciamo con tutti. Si cerca di esaminare la manifestazione del disagio in aula, se causata da una situazione di violenza, diritto negato o sofferenza in casa.
Ma a speziare il mio servizio civile con un saporito trascinamento che spazia dalla gioia di risultati impensabili a grandi battaglie di comunicazione c’è lei: A. L., una bimba con sindrome di down. Un disturbo genetico legato al cromosoma 21 che causa ritardi mentali e nello sviluppo, cosi viene definito. Ma cosa significa rapportarsi quotidianamente con il suo apparato relazionale? Cercare di entrare delicatamente nella sfera del suo micromondo è ben più difficile da spiegare.
Mi vede arrivare da lontano, lei non parla. Eppure, con il suo sguardo complice mi comunica tutto quello che è importante dire, corre veloce, mi abbraccia forte. Comunicare con lei è come avere sempre davanti un muro altissimo e trasparente, non poter verbalizzare uno stato d’animo, un momento o un problema implica uno sforzo enorme da parte mia. Vorrei poterla comprendere per trovare soluzioni ma non è un processo semplice soprattutto in un contesto così delicato.
Sebbene palesi la sua volontà nell’integrarsi in alcune occasioni con gli altri bambini, il suo tempo d’attenzione è molto breve, non partecipa alle attività e deambula in aula.
Sappiamo che una mirada personalizzata attraverso l’intervento di una figura professionale ottimizzerebbe il suo processo di apprendimento ma nonostante le continue richieste, i piani alti sembrano ignorare tale necessità. Le maestre presenti non sono sempre preparate per rispondere ai suoi bisogni ma si fa il possibile per trovare strategie di gestione. Nel mio disperato chiedermi cosa ci faccio qui mi sento improvvisamente importante, mi rendo conto che la mia presenza contribuisce ad alleggerire le dinamiche. Il turno della tarde scorre rapido, anche se il tempo che passo con lei ha un ritmo tutto suo: la seguo, le rimetto le scarpe che prontamente si leva e lancia ovunque, non posso toglierle gli occhi di dosso perché altrimenti la ritroviamo saltare da un banco all’altro o nel vano tentativo di aprire la porta dell’aula per andarsene chissà dove (e qualche volta ci riesce pure). Ma quanta voglia di sentirsi libera e quanto mi meraviglio nello scoprire quello che può dare!
Penso a quanta fatica ma anche alla gioia di quando quel muro che ci divide cade, lasciando spazio a un incrocio di sguardi che concretizza ogni prova di contatto per mesi respinta e sofferta.
Realizzo che dopo un lungo processo nel determinare il mio ruolo di assistenza al suo fianco ci comprendiamo e percepisco reciprocità.
Quello che mi racconta senza tonalità, senza il frastuono delle parole, è significativo. Fa rumore.
Alla fine della giornata non rimane che chiudere in una fortezza il tesoro di emozioni guadagnato.
Riprendo la chancita della speranza per ritornare nella nostra piccola dimora da volontarie che ogni giorno si riempie di una nuova storia da ricordare, un odore da sentire, una nozione da interiorizzare.
La bellezza sta negli occhi di guarda…
Barbara Caputo
Volontaria in Servizio Civile in Argentina
Sede di Maximo Paz