Solo alla morte non c’è rimedio. Questo lo stornello delle ultime settimane in cantiere, in un piccolo paesino nella selva tropicale della regione costiera ecuadoriana. Il cantiere è sempre stata la mia scuola di vita preferita. Da quando entrai nel primo, non riesco ad elencare la serie di lezioni che ho appreso solo grazie al lavoro manuale e alle esperienze che inevitabilmente ti si propongono. E la prima esperienza con un maestro ecuadoriano non è da meno. I problemi sono all’ordine del giorno e, in una piccola comunità lontana 40 minuti dal centro abitato più vicino, senza segnale o possibilità di connessione con l’esterno, la situazione si fa ancor più impegnativa. Ma come si superano questi ostacoli quando le risorse sono limitate? Ponendose pilas! Svegliarsi e stare sul pezzo. Come mi diceva circa ogni mezz’ora il maestro.
Sono laureata in architettura con un master in rigenerazione ambientale e al tempo stesso sono una giovane professionista nel campo della progettazione partecipata con applicazione di materiali naturali. Do il mio contributo in servizio civile per la Associazione Gondwana in Ecuador attraverso la realizzazione di edifici in bioarchitettura in collaborazione con la cittadinanza e la realizzazione di processi dedicati allo sviluppo di un turismo responsabile, ecologico e comunitario. Il progetto, appena terminato, di costruzione di una cabaña comunitaria, nasce grazie all’ intraprendenza della stessa comunità. Abituati a lottare per ottenere i servizi basici con tutte le amministrazioni che governano la gestione e la realizzazione di infrastrutture, per i beni fondamentali come acqua, luce, viabilità, etc., non si sono fatti scoraggiare dalla mancanza di risorse economiche. Gambe in spalla e pedalare.
Si inizia con la raccolta del materiale da costruzione. Per fortuna il bambù è gratuito ed endemico, molto a portata di mano, o di mulo per rendere l’idea: ogni famiglia ha a disposizione grandi quantità di canne di bambù nei loro terreni, e da lì hanno potuto facilmente ricavarne i materiali necessari. Dopo di ché, hanno organizzato tombole e pranzi per raccogliere le poche centinaia di dollari che mancavano per l’acquisto dei materiali edili tradizionali. Una volta organizzatisi per preparare da mangiare per i lavoratori, si sono divisi gli orari di lavoro, in modo da avere sempre almeno tre o quattro persone ad aiutare in cantiere, oltre a me ed al maestro. Prima di iniziare i lavori, si erano definiti delle “formichine lavoratrici”, organizzate e impegnate per il bene della propria comunità. Ma qualcosa ancora non quadrava: le donne. Dov’erano? I primi giorni passavano nell’area dei lavori, salutavano, guardavano come mi muovevo in cantiere, come mi relazionavo con i miei colleghi di fortuna. L’ironia e il sarcasmo regnano nella comunicazione tra paesani da queste parti ed io con il mio spagnolo sbiascicato ci sguazzo. Però nulla cambiava, nonostante i miei sfacciati tentativi di conquistare una chiacchierata, o almeno cinque minuti del loro tempo. Solo la moglie del presidente dell’associazione di contadini, di cui fa parte tutta la comunità, partecipava con la mia stessa attitudine: non fermandosi di fronte al lavoro etichettato come “maschile”.
Poi, il caso ha voluto che durante le due settimane di cantiere avessimo organizzato, con la mia collega italiana, un mini workshop per aiutare le comunità locali nella redazione di un loro piano di sviluppo comunitario ed economico. La situazione li ha fatti finalmente mettere in gioco. Tutti insieme. Senza quelle barriere sociali di separazione uomo-donna a cui spesso sono abituati. Le carte in tavola si sono mescolate e il giorno dopo i lavori hanno visto un’inusuale affluenza di tutti i compañeros, senza differenza alcuna. Mi ha riempito il cuore vedere come in pochi minuti si siano organizzati per dividersi i compiti e collaborare efficientemente per il bene comune, nonostante la lentezza epica che li circonda. Azioni che anche in gruppi di lavoro consolidati necessitano tempistiche maggiori, per esempio con i miei colleghi italiani, si sono ora rivelate apparentemente rapide e facili. Ora sì che mi sentivo adottata, nonostante l’affetto che fin da subito mi mostrarono, specialmente la famiglia che mi ospitava: dopo le prime interazioni giusto per conoscersi, alcune domande introduttive su famiglia e questioni personali, si limitavano a parlare del cantiere, dei lavori, o delle borrachadas con “El maestro” (si lo ammetto, ancora non conosco il suo nome). Dopo due settimane, quasi al termine dei lavori, hanno iniziato a farmi domande sull’Italia, sulle nostre abitudini. Quanto si sono sorpresi, poi, di sentirsi raccontare storie così vicine alla loro quotidianità: alla fine non siamo così lontani. E quanto mi sono sorpresa io nel riscoprirlo proprio nelle mie parole.
Un giorno mi ha sorpreso la magia di terminare le ore di servizio in cantiere ed andare a raccogliere l’haba, le fave, tra chiacchiere e risate. Quasi riposante, anche al ritorno, risalendo la collina con i frutti del raccolto sulle spalle.
Facendo un resoconto di cosa ho imparato nelle ultime due settimane metterei al primo posto, a pari merito, l’importanza di credere nelle proprie capacità pratico-teoriche e quella del poter contare in un gruppo, di simili e non, focalizzati in uno scopo comune; la ricchezza di poter affrontare problemi da risolvere; di lavarsi bene le mani prima di mangiare (i batteri sono un problema che si presenta a posteriori); l’importanza del machete, con cui si può fare tutto, scavare una buca o sbucciare un’arancia; e ultimo, ma non per questo meno importante, il gusto di attendere. Se non c’è niente da fare, si aspetta, si ragiona e si va più rapidi poi nelle fasi seguenti, più consapevoli. Ho imparato a portare pazienza. Come una valigia carica del tempo della campagna, il tempo dei nostri nonni, che dà la possibilità a tutto l’atteso di realizzarsi. Con la sua naturalità.
In conclusione, la struttura non è finita. Le difficoltà di cui ho parlato non ci hanno dato la possibilità di portare a fondo il compimento dell’opera nel tempo che potevo dedicargli. La mancanza del materiale vegetale per la copertura ha lasciato una delle cinque falde del tetto spoglia, quasi per mostrare la sua ossatura portante. Un’opera incompleta. Ma rappresenta molto di più della indomita inefficienza mista a illegalità delle grandi opere abbandonate e non terminate della nostra soave Italia, cariche di corruzione ed incompetenza. Questa, al contrario, mi risulta come l’emblema dei processi sociali. Simbolo di una società pura e primordiale. Per quanto nell’attualità incontrino alcune difficoltà, le interazioni umane ancora non si sono esaurite. Certo, la tecnologia le ha cambiate, ma un nuovo adattamento è già in corso. La società è sempre in una continua mutazione e trasformazione, e quando la forza evoluzionista, indipendentista, comunitaria e sociale traina con gioia questi processi, io mi emoziono. Mi porto a casa la soddisfazione di essere stata parte della semina di questa nuova piantagione di collaborazione. Di aver apportato anche con il mio sudore il miglioramento di un Luogo, con la maiuscola. Questa infrastruttura, risultato del loro lavoro, del loro impegno e della loro intraprendenza, è servita a tutti, soprattutto a me. E chissà forse il mio esempio di collaborazione, con il mio essere sudicia e meticcia può far sorgere una nuova voglia di sporcarsi le mani al femminile. Le ho lasciate che già parlavano di come fare lampade e panchine con gli scarti della costruzione. Nulla mi farà perdere la speranza che la forza di queste donne valenti e vigorose funga da traino anche per il futuro sviluppo di questa piccola realtà.
Marianna Landi
Volontaria in Servizio Civile in Ecuador
Sede di Portoviejo